venerdì 12 aprile 2013

Considerazioni sommarie sul collezionismo di dischi in vinile usati.

Proprio oggi mi è capitato di sfogliare velocemente, in edicola, quello che parrebbe essere il primo numero di una nuova rivista nostrana dedicata al collezionismo discografico, "Raropiù", la cui testata sembrerebbe volersi richiamare come titolo a quello della rivista "Raro!", mensile anch'esso dedito allo stesso argomento, che mi sembra effettivamente essere scomparso da un pò di tempo dalla circolazione, a ulteriore conferma dei tempi grami che stiamo vivendo, solo che, analogamente a quest'ultima, prende esclusivamente in considerazione i generi musicali più popolari, ignorando bellamente i generi più impegnati, classica in primis, ovviamente. Errare humanum est, perseverare est diabolicum, qui naturalmente si continua a perseverare in questo provincialismo e dilettantismo culturale, il che è brutto e distruttivo, come è nella norma, per carità. Ogni battaglia essendo persa in partenza, non resta che mestamente rassegnarsi a questo andazzo, sempre in tema di idiozia dilagante. Nel mio piccolo ci proverò io a dare qualche ragguaglio, sulla base della mia modesta esperienza, della mia mediateca personale e di quel poco che ho appreso viva voce, riguardo al collezionismo di vinili usati di musica classica, sempre con beneficio d'inventario e pressochè assoluta certezza d'incorrere in errori e castronerie clamorose, stante il fatto che, anche in questo ambito, non si finisce mai d'imparare, oltrechè di incappare in colossali bidonate come il peggiore degli imbecilli (il sottoscritto incappò in pieno, nel lontano 1984, in uno di questi bidoni colossali, spendendo 80.000 lire, ovvero quasi tutti i soldi che aveva, in uno schifosissimo cofanetto commemorativo in edizione ufficialmente fuori commercio, acquistandolo nel periodo natalizio, in un noto negozio specializzato del centro storico di Bologna, tuttora esistente anche se in altra strada, guadagnandoci, dopo esserselo ascoltato integralmente, un forte mal di pancia, accompagnato a una fortissima emicrania, che lo funestò per tutto il periodo festivo, finendo con lo sbolognare, ovvero letteralmente regalare, all'incompetente di turno, il mefitico cofanetto, pur di non vederselo mai più sotto gli occhi, cosa di cui tuttora si vergogna come un ladro!). Gli unici articoli al riguardo, che ricordo di aver letto, li trovai in qualche remoto numero della rivista "Audiophile Sound", se la memoria non m'inganna, essendo in un'età da piena arteriosclerosi dilagante. In questa sede mi voglio occupare, sinteticamente, delle varie stampe dei dischi Decca, Deutsche Grammophon/Archiv e Philips, stante la loro diffusione dalle nostre parti e la relativamente facile reperibilità nel mercato dell'usato. Cominciamo in ordine alfabetico dai Decca, regolarmente distribuiti a suo tempo nel nostro paese e prevalentemente stampati in Inghilterra fin verso la fine degli anni '70 e poi successivamente, fino ad almeno la metà degli anni '80, in Olanda, questi ultimi con una qualità di stampa inferiore e conseguentemente valore collezionistico minore. Dico prevalentemente, poichè ne esistevano anche delle stampe tedesche, effettuate dalla Telefunken, facilmente distinguibili, come peraltro le olandesi, da quelle britanniche, che talvolta erano reperibili anche da noi; in generale, vale anche per altre case discografiche, lo stampaggio germanico è solitamente quello di qualità migliore, ma non è affatto detto che sia anche quello di maggior valore dal punto di vista collezionistico, la casistica essendo varia. Ma la cosa che nessuno sembra rilevare è il fatto che esistono alcuni titoli Decca, soprattutto quelli di maggior richiamo, che venivano ristampati in Italia, non sempre immediatamente distinguibili dagli altri, con una qualità di stampa e un valore collezionistico ovviamente inferiore, come è purtroppo quasi sempre la regola generale nel caso delle stampe nostrane. Ancora più difficile, nella maggior parte dei casi, distinguere le stampe italiane dei dischi Dg, camuffate sovente in maniera perfida e subdola, a differenza di quelle tedesche, inglesi, francesi, spagnole, statunitensi, argentine, brasiliane e giapponesi, tutte assai più facilmente individuabili, mentre per la Archiv non sembrerebbero sussistere analoghi problemi, essendomi fino ad ora imbattuto esclusivamente in stampe tedesche e giapponesi. Anche per la Philips, le cose vanno meglio, essendo le varie stampe olandese, francese, tedesca, italiana, giapponese, statunitense, più agevolmente distinguibili le une dalle altre. Conto di entrare più nel dettaglio in merito, nel prossimo scritto (continua).