Disquizioni intorno alla musica colta, con particolare riferimento alla realtà contemporanea.
sabato 13 aprile 2013
Come riconoscere i dischi Deutsche Grammophon "italiani".
Innanzitutto questo problema non credo sussista per i dischi prodotti col marchio Archiv Produktion, costola della stessa Dgg, creata nell'immediato secondo dopoguerra, stante la natura eminentemente specialistica che ne ha caratterizzato fin dagli esordi l'operato, rivolta ai cultori del periodo musicale che parte grosso modo dal primo medioevo fino al primo '800, con ambizioni prevalentemente filologiche, in antitesi quindi alla filosofia per così dire generalista della stessa Dgg (pur essendo quest'ultima prevalentemente concentrata sul repertorio che va dal classicismo al tardo romanticismo), riguardo alla quale, fino adesso, mi sono imbattuto esclusivamente in stampaggi tedeschi o giapponesi. Ma, ritornando alla Dgg, mentre non vi è alcuna difficoltà nel riconoscere le varie nazionalità degli stampaggi tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, americani, argentini, brasiliani, giapponesi, in quanto esplicitamente dichiarati sia sulle copertine che sulle etichette dei dischi, con le stampe italiane, sovente quasi indistinguibili dagli originali tedeschi, il discorso si fa decisamente più insidioso. Salvo certi titoli delle collane economiche e a medio prezzo tipo la "Resonance", in cui anche le copertine recavano in questo caso scritte interamente in italiano, il pericolo maggiore d'incorrere inconsapevolmente in una stampa italiana, viene dalla collana ad alto prezzo. In effetti, nemmeno io mi capacitavo del fatto che alcuni titoli rivelassero all'ascolto, una qualità di stampa leggermente inferiore ad altri della stessa collana. Ci pensò, a metà anni '90, a mettermi letteralmente una pulce nell'orecchio, un negoziante, Salvatore Gennaro, tuttora titolare del negozio "Ges.Co.Ser Alta fedeltà" di Cesena, facendomi notare le piccole differenze a livello di etichetta (col quale, vi assicuro, non ho stipulato alcun accordo pubblicitario, essendo il medesimo del tutto ignaro di questa mia menzione nonchè in senso assoluto del mio sito). Ma procediamo con ordine: innanzitutto i titoli a maggior rischio, per così dire, sono quelli in primis di richiamo più popolare, ovvero relativi a compositori come Bach, Beethoven, Brahms, Ciaikovski, ecc. ecc., o con compositori nostrani molto conosciuti come Albinoni, Corelli, Vivaldi, Paganini, Verdi, Puccini, Rossini, Respighi, Mascagni e compagnia bella, o con musicisti nostrani come Accardo, Benedetti-Michelangeli, Ciani, Pollini, Abbado, Chailly, Sinopoli, Votto, Santini, Gavazzeni, ecc., o con complessi tipo quelli del Teatro alla Scala, solo per fare alcuni esempi. Oppure anche con interpreti stranieri di grandissimo richiamo come Karajan. Queste considerazioni di massima vanno però verificate di volta in volta, poichè ho riscontrato parecchie eccezioni. Inoltre, queste stampe italiane, sembrerebbero partire cronologicamente dal '70 in poi, non avendole fino ad ora riscontrate in esemplari di epoca antecedente, che sembrerebbero di provenienza esclusivamente germanica per quel che ho potuto vedere. Sono esenti da questo problema, tutti o quasi i titoli derivati da registrazioni digitali, che sembrerebbero essere stati stampati esclusivamente in Germania, ma che, in quanto tali, non hanno comunque grande valore collezionistico, essendo di produzione tarda. Tornando alle ristampe nostrane, quello che rende la faccenda insidiosa è il fatto che solo il disco vero e proprio è fabbricato in Italia, mentre cofanetti, libretti, custodie, buste interne e quant'altro li corredi, sono fabbricati in Germania! Inoltre le etichette di questi dischi, recano le stesse scritte interamente in lingua tedesca, degli originali. Ma volendomi dilungare su quest'ultimo aspetto, rimando il tutto al prossimo scritto, essendo la casistica assai varia al riguardo (continua).
Collezionismo vinilico: come riconoscere i dischi Decca "italiani".
(Segue) Come affermavo nello scritto precedente, i dischi Decca, venivano generalmente importati dal distributore ufficiale nostrano, direttamente dall'Inghilterra e saltuariamente, in piccola percentuale, anche dalla Germania, stampe chiaramente e nettamente distinguibili ossia riconoscibili, le une dalle altre, ma talvolta succedeva che, per i titoli di musica classica che si presumevano di maggior richiamo per il mercato nostrano, venissero di conseguenza ristampati di sana pianta (comprese le custodie e le buste interne), nel nostro paese, ovviamente con una qualità di stampa e quindi un valore collezionistico inferiore rispetto agli originali stampati dalla casa madre nel Regno Unito. Questi dischi Decca nostrani, non sono sempre chiaramente distinguibili dagli originali inglesi, per un neofita, anzi a un esame superficiale potrebbero persino apparire quasi identici, poichè non sempre le loro etichette recavano iscrizioni nella lingua nostrana e spesso, nemmeno nel retrocopertina, erano presenti note di commento in italiano. L'indizio principale per distinguerli può essere, nella maggior parte dei casi, una lettera I presente negli estremi di etichetta, ossia nei numeri di catalogo assegnati alle varie incisioni. La Decca usava delle sigle alfanumeriche composte da una serie di lettere maiuscole seguite da 3 o 4 cifre (per la collana ad alto prezzo si trattava delle sigle SXL, SXDL, SET limitatamente ai dischi di musica sinfonico-corale e alle selezioni operistiche, PFS; queste sigle venivano tutte seguite da un numero a 4 cifre, tranne la SET recante un numero a 3 cifre, tutto quanto detto fino adesso, vale per i dischi singoli, mentre per i cofanetti multipli la sigla distintiva era SET seguita da un numero complessivamente di 4 o 5 cifre, ma di cui l'ultima o le ultime 2, erano separate dalle precedenti da un trattino, poichè indicavano il numero dei dischi contenuti nel cofanetto; altre volte la sigla era una D seguita da un numero a 3 cifre, a cui seguiva un'altra D con 1 o 2 cifre, sempre a seconda del numero di dischi presenti. Per le collane a medio prezzo le sigle erano SDD o GOS - nella serie "Ace of diamonds" -, ACL -nella serie "Ace of clubs"-, SPA -nella serie "The world of..."-, JB -nella serie "Jubilee"-, LE -nella collana "London Enterprise". Per la collana economica "Eclipse", la sigla era ECS. Dimenticavo però di dire che, verso la fine degli anni '70 e fino ad almeno la metà degli anni '80, la casa madre inglese faceva stampare i vinili in Olanda, anch'essi comunque riconoscibili, con un certo scadimento qualitativo rispetto agli stampaggi inglesi.). Le stampe italiane erano indicate generalmente in questa maniera: SXLI, SXDLI, PFSI, SDDI, SPAI, ECSI, GOSI, JBI, seguite dal consueto numero a 4 cifre; oppure, per i cofanetti multipli D000DI00, SET000-00I; per le selezioni operistiche e i dischi di musica sinfonico-corale, SET000I. Sulle etichette del disco, si poteva leggere in piccolo la scritta "Made in Italy". Mi è capitato però una volta di imbattermi in un cofanetto Decca della "Fedora" di Umberto Giordano, nell'edizione diretta da Lamberto Gardelli, in cui era assente la I dagli estremi di etichetta, tanto da farmi supporre di essere al cospetto di una stampa originale d'epoca. Per fortuna, un rapido esame interno del cofanetto rivelò l'inganno, poichè le etichette dei dischi non solo recavano iscrizioni interamente in italiano, ma persino un riquadro con la sigla SIAE in bella evidenza, per cui fate molta attenzione! Il problema ovviamente non sussiste per i dischi col marchio London (mai regolarmente importati dalle nostre parti), poichè la Decca dovette inventarsi un simile stratagemma per esportare i suoi dischi in America, stante il fatto che l'American Decca, inizialmente nata come costola della casa madre britannica, se ne era svincolata completamente, rendendosi di fatto indipendente, in tempi successivi. Ma pensate per esempio anche alla Emi, che per gli Stati Uniti aveva dovuto crearsi i marchi Angel, Capitol e Seraphim, non potendo utilizzare nè il marchio His Master's Voice poichè di esclusiva americana della Rca-Victor, nè il marchio Columbia, essendo di esclusiva statunitense della Columbia americana, che a sua volta si era dovuta inventare il marchio Cbs, per poter esportare il suo catalogo nel resto del mondo! (Continua)
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