Disquizioni intorno alla musica colta, con particolare riferimento alla realtà contemporanea.
sabato 30 aprile 2011
Le relazioni pericolose.
Il titolo si riferisce all'omonimo romanzo di Pierre Francois Armand Choderlos de Laclos, da cui il drammaturgo Heiner Muller trasse nel 1981, liberamente ispirandovisi, un lavoro teatrale oggetto della nuova opera di Luca Francesconi, "Quartett", andata in scena alla Scala di Milano martedì 26 aprile in prima assoluta e radiotrasmessa in diretta. Anche qui l'impressione complessiva del solo ascolto radiofonico è stata più che notevole, nonostante la cerebralità del libretto, caratterizzato da atmosfere ora claustrofobiche, ora oniriche e un linguaggio musicale più ostico e meno immediato rispetto al lavoro di Bolcom, ma che proprio per questo motivo, aveva il grande merito di rifuggire dalle soluzioni più ovvie e scontate, tenendosi saggiamente alla larga dai criteri del facile ascolto pur di accattivarsi il pubblico, contrariamente a quanto hanno fatto sia Lorenzo Ferrero col suo dimenticabile "Risorgimento!" che Daniel Catàn col suo ancor più stantio "Il postino", tanto per citare i 2 esempi più recenti in cui mi sia imbattuto in radio. Per fortuna, stavolta anche in terra nostrana si è avuta una prima assoluta degna di tal nome, se solo capitasse più spesso! Peccato solo che il lavoro articolato in un atto unico e suddiviso in 13 scene, sia persino troppo breve, per complessivi 81 minuti circa di musica. Chissà che il fatto di essere stato commissionato congiuntamente dalla Scala e dalle Wiener Festwochen, oltrechè di non essere minimamente legato ad alcuna ricorrenza patriottarda, non abbia influito positivamente sull'esito complessivo. Lo stile di questo lavoro di Francesconi (classe 1964) mi ricorda sotto un certo aspetto quello di Luigi Nono nel suo periodo centrale, ossia quello dell'impegno politico e civile ( che secondo me è stato quello più fecondo e migliore), ovvero l'alternanza di momenti parossistici di estrema violenza fonica ad altri di altrettanto estrema dolcezza rarefatta, per il resto essendo 2 stili completamente differenti. Questo lavoro usufruiva per la sua particolare conformazione di una suggestiva spazializzazione informatica del suono a cura dell'Ircam, poichè in buca era presente un complesso da camera e sul palcoscenico c'erano solo 2 cantanti, mentre in sala prove era presente un'orchestra al gran completo con altri 2 cantanti il cui suono veniva mediato e diffuso dall'apparato informatico dell'Ircam, il che richiedeva la presenza di 2 direttori d'orchestra ciascuno alla conduzione del proprio complesso strumentale; questo tanto per dare una vaga idea della complessità dei piani sonori su cui si articolava la trama musicale. L'opera è stata data in lingua inglese e l'autore ne ha motivato la scelta dicendo che l'inglese, in quanto lingua neutra diffusa in tutto il mondo, ossia una "lingua da aeroporto", a differenza dell'italiano e del tedesco, non evoca nell'ascoltatore stilemi operistici predeterminati, concedendo più libertà espressiva al compositore; personalmente mi chiedo se, in tale scelta non abbia influito anche il fatto che quest'opera non sia destinata anche a una ribalta internazionale. La regia dello spettacolo era di uno degli esponenti del gruppo catalano La Fura de Baus e anche stavolta il numeroso pubblico ha risposto più che positivamente con applausi calorosi al termine del lavoro. Per ovvi motivi non mi posso pronunciare sulla parte visiva di questo come dell'altro spettacolo di cui ho parlato in precedenza, ma da quel che ho letto e sentito, direi che in ambedue i casi doveva senz'altro essere quantomeno all'altezza della situazione, il che non è affatto poco! Anche col lavoro di Francesconi si conferma ulteriormente il fatto che di fronte a una proposta valida, persino in un paese retrogrado come il nostro, le paure del pubblico rispetto al contemporaneo talvolta svaniscono per fortuna! Dimenticavo di aggiungere che sia la resa esecutiva di tutti gli interpreti, che la regia sonora sottesa a simile architettura musicale, sono risultate anche in radio impeccabili e suggestive, a riprova ulteriore che uscire dai sentieri più ribattuti fa bene anche agli stessi artisti coinvolti nell'impresa! Ma il discorso sul teatro lirico contemporaneo è destinato a continuare all'infinito. Alla prossima occasione!
venerdì 29 aprile 2011
Ulteriori riflessioni sul teatro lirico contemporaneo.
In questi ultimi giorni la radio mi ha fornito nuovi stimoli per tornare a parlare di opera lirica contemporanea con la trasmissione in differita sabato 23 aprile di "A view from the bridge" di William Bolcom e con la diretta, martedì 26 aprile di "Quartett" di Luca Francesconi, finalmente due validi esempi di teatro lirico contemporaneo! Il lavoro del compositore americano William Bolcom (classe 1938) era stato commissionato dal direttore d'orchestra Bruno Bartoletti quando era direttore artistico della Chicago Lyric Opera per la stagione 1997-98, ed è ovviamente tratto dall'omonima commedia teatrale di Arthur Miller, che conobbe una celeberrima trasposizione cinematografica con la regia di Sidney Lumet e nel ruolo del protagonista, Eddie Carbone, l'attore nostrano Raf Vallone (anche se inizialmente si era pensato a Henry Fonda per questo ruolo, ma siccome quest'ultimo non si sa bene se fosse troppo impegnato o avesse preteso un compenso troppo elevato, alla fine venne scelto l'attore italiano che siglò una delle sue più giustamente celebri interpretazioni). Difatti anche in italiano il titolo recitava "Uno sguardo dal ponte". Tornando all'opera lirica, suddivisa in 2 atti per una durata complessiva di poco superiore alle 2 ore, l'edizione proposta in radio, registrata all'Opera di Roma il 18 gennaio scorso, costituiva la prima esecuzione assoluta ufficiale europea in lingua originale, in quanto nel 2009 era stata rappresentata in Germania in una versione ritmica in tedesco non apprezzata dall'autore. Anche l'esecuzione romana, analogamente alla prima assoluta avvenuta a Chicago, avrebbe dovuto essere diretta dal maestro Bartoletti, ma a causa di un'indisposizione, quest'ultimo è stato validamente sostituito da David Levine. Diciamo subito che la musica, fin dall'attacco iniziale, è caratterizzata da una fortissima presa teatrale ed emotiva, che non conosce cedimenti fino alla fine, ma questa è una caratteristica comune a molti compositori dediti al teatro lirico contemporaneo di area anglosassone. Altra caratteristica comune di molti di questi compositori, soprattutto americani, è quella di avere un'abilità sopraffina nel miscelare stilemi colti e popolari in un multilinguismo stilistico di estrema naturalezza, senza complessi nè pregiudizi, ma con un'affascinante spregiudicatezza, pur rimanendo lo stile di ciascuno di essi, estremamente personale e riconoscibile, poichè per costoro tutto ciò viene visto come una meravigliosa opportunità di allargamento del ventaglio espressivo, giustamente. Mai la loro musica ha il sapore di un ricalco pedissequo, ma tutto fluisce con estrema spontaneità e naturalezza, pur nella eterogeneità dei moduli espressivi adottati. E difatti anche in questo lavoro convivono fondendosi mirabilmente, dodecafonia europea, melodramma italiano, musical, vaudeville, rag, canzone popolare, in una sintesi affascinante e trascinante. Detto dell'estrema bravura complessiva della compagnia di canto, quello che mi ha sorpreso positivamente è stata la prova superba dei complessi corali e orchestrali romani. Il coro, piuttosto impegnato in quest'opera, si è comportato molto bene, sia pure con qualche lieve sbavatura qui e là, ma ancora più notevole se possibile mi è sembrata l'orchestra, letteralmente trasfigurata e galvanizzata, con una sorprendente idiomaticità di suono; insomma, forse esagero, ma sembrava veramente di sentire un'orchestra americana, considerando l'estrema complessità della partitura, un genere di musica al quale i complessi nostrani non sono certamente adusi. Insomma ciò mi conferma nell'opinione che anche per i musicisti stessi sia più benefico e stimolante uscire il più possibile dal repertorio più consolidato e dalle tradizioni esecutive più sclerotizzate, al fine di non ricadere nella più obbrobriosa routine! Ovviamente anche il pubblico numeroso presente in sala ha risposto calorosamente ed entusiasticamente a tutto ciò, il che è consolante, in un paese asfittico come il nostro, poter constatare che, quando si propone un capolavoro assoluto come questo, la naturale diffidenza verso il contemporaneo, si scioglie come neve al sole, almeno in questo caso. Essendomi dilungato molto su questo lavoro e volendo fare un discorso più meditato e approfondito, rimando la trattazione del bel lavoro di Luca Francesconi "Quartett" a una prossima volta.
giovedì 28 aprile 2011
I tromboni di Fra' Diavolo.
Sempre a proposito di Abbado, siccome ovunque egli si esibisca, viene seguito da una claque adulante che va sotto il nome di abbadiani itineranti, mi sono sempre chiesto come facciano questi ultimi a trovare tutto il tempo e il denaro necessario per stare sempre alle costole del loro beniamino, insomma come campino e di quale entità siano le loro denunce dei redditi, soprattutto pensando all'attuale crisi economica che ci attanaglia, ma temo che questa mia curiosità sia destinata a rimanere insoddisfatta. Pensando all'ex magnifico (!) rettore e attuale presidente della Fondazione Carisbo, Fabio Roversi Monaco, ma, ai tempi del suo rettorato universitario, non era lui quello che concedeva con generosità lauree honoris causa a cani e porci, tra l'altro con un bilancio finanziario fortemente in passivo? Insomma tutti questi esimi personaggi mi lasciano fortemente dubbioso sulla serietà dell'intera faccenda; contrariamente a quanto si afferma non percepisco poi una così forte domanda culturale da parte della popolazione che trovo sempre più involuta e provinciale, in barba al fatto che Bologna sia stata insignita dall'Unesco come città della musica (babbeo io che non me ne sono mai reso conto!). E per quali manifestazioni musicali si utilizzerebbe questo fantomatico auditorium? Per i soliti miserelli concerti di agenzia? Per le solite parate di divi e divetti musicali plasticosi di turno pompati dalle multinazionali discografiche? Per la solita minestra? Per qualche astruseria pseudocontemporanea? O per che altro? Il panorama desolante che mi vedo intorno non mi induce a essere ottimista al riguardo. Tra l'altro chi lo gestirebbe? Il solito burosauro partitocratico sommamente incompetente in materia, visto il clientelismo e la corruzione dilaganti in ogni dove, anche qui in Emilia-Romagna? Tacendo poi dei finanziamenti necessari per la realizzazione dell'ambizioso progetto! Come riportato sempre su "city" del 19 aprile: "Di certo c'è che la Fondazione (Carisbo) da sola non potrà coprire i costi (ma va!). La palla, dunque, passerà al prossimo sindaco, alle banche e al sistema Bologna intero." Non è che alla fine pagherà sempre Pantalone, ossia il povero contribuente già abbondantemente tartassato, per un progetto faraonico di dubbia utilità, che forse, visti i tempi grami, non vedrà nemmeno la luce, che comunque si potrebbe tradurre nell'ennesimo pretesto per estorcere altro denaro ai contribuenti, facendo arricchire ulteriormente i personaggi illustri coinvolti, che sono certo gli ultimi ad averne necessità, ma si sa, piove sempre sul bagnato! Non sarebbe certo la prima e ultima volta che si regalerebbero soldi qui da noi, ai soloni di turno, con ben altri problemi che necessiterebbero di risoluzione e che abbiamo tutti sotto gli occhi. Basta coi compagnucci della parrocchietta più o meno sinistrorsa che hanno già prodotto abbastanza danni! Staremo a vedere. Gabriele Evangelista.
sabato 23 aprile 2011
Un buco nell'acqua!
Questa è la mia opinione riguardo al progetto di questo auditorium qui in Bologna, anche se mi augurerei di essere poi smentito dai fatti! Ma pensando agli ingegni coinvolti, mi viene da essere parecchio scettico in proposito! A cominciare dall'architetto Renzo Piano, anzi "l'archistar" come viene definito su"city" del 19 aprile (ma chi li conia questi orridi neologismi? Il diretto interessato o i giornalisti? Andiamoci "piano" con queste ridicole iperboli che sanno tanto di miserabili trombonate!): suo fu anche il progetto dell'auditorium del Parco della Musica in Roma, dalla buona acustica ma, sia pure per volere del defunto Luciano Berio, privo di un organo a canne, tanto secondo lo stesso Berio facilmente rimpiazzabile da un equivalente elettronico, il che detto da un importante compositore è abbastanza grave! Infatti non sono poi così poche le partiture orchestrali che richiederebbero la presenza di un autentico organo a canne, per cui qualora si decida di realizzare un nuovo spazio deputato alle manifestazioni musicali, con un progetto così ambizioso, la cosa non dovrebbe nemmeno essere messa in discussione! E difatti sotto questo aspetto l'auditorium di Roma ha rappresentato un'occasione perduta, visto che, se non sbaglio, anche l'altro auditorium di via della Conciliazione ne è privo, il che per la capitale d'Italia è piuttosto grave! Per cui, ogni volta che in un concerto al Parco della Musica viene eseguita una partitura che richiede la presenza dell' organo, tipo le "Vetrate di chiesa" di Respighi, si ricorre a un cosiddetto elettrofono, ossia un organo elettronico di dimensioni compatte che può essere tuttalpiù accettabile in una fossa orchestrale di un teatro lirico per ovvie ragioni, ma in una sala da concerto evidenzia in maniera inaccettabile tutti i suoi limiti di artificiosità timbrica e di inconsistenza dei registri gravi! E guarda caso anche stavolta, pur non essendoci di mezzo lo zampino di Berio, per questo benedetto auditorium di Bologna, non si accenna minimamente alla presenza di un organo a canne. Il che mi fa temere che il progetto sia già in partenza zoppo, poichè se veramente si vuole fare una cosa, o la si fa come si deve, o è meglio lasciar perdere! Della propensione alle balle cosmiche da parte di Abbado ho già detto prima, mi viene solo da far presente che le tante sedicenti orchestre da lui fondate non siano altro che il continuo rimescolamento di elementi provenienti dai Berliner Philarmoniker, dalla Gustav Mahler Jugendorchester e dalla European Community Youth Orchestra, con una spruzzatina di alcuni giovani elementi nuovi come specchio per le allodole; aggiungo che lo stesso Abbado fu coinvolto parecchi anni fa in un' inchiesta per evasione fiscale, per cui temo che i suoi conti col fisco nostrano siano ancora in sospeso, il che la dice lunga sulla statura morale del personaggio, sommo musicista, ma uomo invero miserello! Gabriele Evangelista
venerdì 22 aprile 2011
Una boiata pazzesca, ovvero la cattedrale nel deserto!
La battuta fantozziana mi viene spontanea pensando al ventilato progetto di un nuovo auditorium qui a Bologna. Anche col recente reintegro del FUS, la situazione generale delle istituzioni musicali nostrane mi sembra che continui a rimanere abbastanza critica, per cui in un periodo di vacche magre come quello che stiamo attraversando, la faccenda mi sembra decisamente campata in aria, nonostante il prestigio dei nomi coinvolti a cominciare da quello di Claudio Abbado, il quale non è nuovo alle solenni corbellerie. Una per tutte: quando tempo addietro pose come condizione per un suo ritorno alla Scala di Milano, l'impegno da parte del comune di far piantare non si sa bene dove e come, un numero pazzesco di alberi ( mi pare ne avesse proposti addirittura 20000!). Insomma se il comune, con chissà quale spreco di denaro pubblico avesse accondisceso a una simile assurda richiesta demagogica e populista, il sommo musicista avrebbe diretto i complessi della Scala per un unico concerto in cui era inizialmente prevista l'esecuzione dell'ottava sinfonia di Mahler, la celeberrima "sinfonia dei mille" (anche se alla prima assoluta avvenuta a Monaco di Baviera nel 1908, gli esecutori erano per la precisione 1036). E io a questo punto già subodorai la bufala, in quanto Abbado non ama questa composizione; la diresse soltanto in un concerto dal vivo del febbraio 1994 alla sala grande della Philarmonie di Berlino, esecuzione poi riversata in disco nel '95 dalla DG, unicamente per completare il proprio ciclo discografico mahleriano ( singolare comunque che nonostante lui non ami questa partitura, si tratti in ogni caso di una bella incisione, decisamente raccomandabile). Difatti dopo qualche tempo il suddetto ci ripensa e decide di sostituirla con la seconda sinfonia dello stesso compositore (l'ancor più celeberrima "risurrezione"), di organico vasto sì ma assai più ridotto rispetto all' ottava e soprattutto meno onerosa economicamente per un teatro. Soltanto che, a furia di rinvii, alla fine il progetto comunque campato in aria, è svanito nel nulla! Ma per la serie "errare è umano, perseverare è diabolico", ecco che i compagnucci della parrocchietta sinistrorsa Abbado, Piano, Roversi Monaco e soci, si apprestano a deliziarci con un'altra cavolata. Ulteriori considerazioni in seguito... Gabriele Evangelista
venerdì 15 aprile 2011
Il teatro lirico non è morto!
Anzi è più vivo e vegeto che mai! Solo che qui da noi ci se ne accorge poco o nulla! Periodicamente, quando mi capita di fare un'affermazione del genere con qualche interlocutore, quest'ultimo il più delle volte se ne meraviglia. Qui da noi sopravvive ancora il luogo comune che il teatro lirico sia morto con la "Turandot" di Puccini, rappresentata nel 1926, mentre non solo è proseguito tranquillamente in tutto il mondo con la creazione di nuovi lavori, ma anche il melodramma all'italiana ha avuto parecchi continuatori in seguito, come per esempio Nino Rota e Giancarlo Menotti. Purtroppo attualmente qui da noi se ne produce poco e spesso per i nostri compositori è più facile ottenere commissioni di nuovi lavori all'estero che in patria; se si pensa che il nostro paese è la patria del teatro lirico (credo che l'anno di nascita ufficiale sia il 1596, con la rappresentazione della "Dafne" di Jacopo Peri), c'è di che recriminare. Ma purtroppo basta scorrere i cartelloni dei teatri per rendersi conto di come l'opera lirica sia diventata da noi roba da museo delle cere, ulteriormente acuito dall'attuale crisi economica: in prevalenza ci sono i soliti titoli arcinoti riproposti fino alla nausea, ad uso e consumo di un pubblico formato in prevalenza di vecchie mummie incartapecorite! Per contro nelle aree anglosassone, scandinava, slava soprattutto, ma anche in quelle germaniche, francofone, ispaniche, le novità non mancano, che poi si rivelino tutte valide, questo è un altro paio di maniche, ciò non toglie che, per esempio in area anglosassone, ossia in Inghilterra e negli Stati Uniti, il livello medio delle nuove proposte sia più che buono, con diverse punte di eccellenza, così come anche nell'area scandinava non si scherza affatto! Insomma l'aria che si percepisce all'estero non è così muffa e stantia come da noi! E certamente quella manciata di lavori nuovi commissionata per l'anniversario dell'unità d'Italia, non cambia più di tanto il quadro generale della situazione, tanto più pensando al livello non esaltante di lavori come il già citato "Risorgimento" di Lorenzo Ferrero, la cui contemporaneità è solo cronologica, poichè segue strade ampiamente risapute, senza alcuna originalità; c'è da augurarsi che il livello degli altri nuovi lavori proposti sia un pò più elevato di questo, ma visto il clima generale, temo che non sia così e che si tenda troppo a indulgere al facile ascolto, per motivi di cassetta. Il discorso prosegue.... Gabriele Evangelista
sabato 9 aprile 2011
Ulteriori considerazioni sulla contemporaneità nel teatro lirico.
Un altro esempio di discutibile contemporaneità si era già ascoltato su Radiotre sabato 2 aprile alle ore 20 circa, con la trasmissione in differita dall'Opera di Stato di Vienna in una registrazione dal vivo effettuata il 7 dicembre 2010, del lavoro teatrale del compositore messicano Daniel Catàn "Il postino", in 3 atti, dal romanzo "Il postino di Neruda" di Antonio Skàrmeta, la stessa fonte che aveva ispirato l'omonimo film di Michael Radford con Massimo Troisi nella parte del postino. Qui se possibile si sprofonda ancora di più rispetto al lavoro di Ferrero in un risultato complessivo di aurea mediocritas, nel senso che, pur non trrovandolo personalmente un brutto lavoro, nondimeno non mi è risultato particolarmente esaltante come risultato finale. Il che è persino peggio! L'eccesso di melodiosità zuccherosa, unita a puccinismi di riporto particolarmente sfacciati, con qualche vaga spruzzatina stravinskiana qua e là, oltre a un certo bozzettismo e colore locale alquanto banali e stereotipati, denotavano innanzitutto poca o punta personalità dal punto di vista stilistico, che non andava oltre una generica piacevolezza a buon mercato. Va detto peraltro che l'attrattiva principale dello spettacolo era la presenza del tenore Placido Domingo nel ruolo del poeta Pablo Neruda, scritto appositamente per lui, consentendogli così alla sua veneranda età di aggiungere un ulteriore nuovo personaggio nel suo già ricco carniere. Ovviamente è stato lui soprattutto a beccarsi qualche applauso a scena aperta nel corso dell'opera, da un pubblico che, giudicando attraverso la ripresa audio radiofonica, anche stavolta non sembrava particolarmente numeroso. Per il resto gli applausi sembravano abbastanza tiepidi.Musicalmente i momenti migliori secondo me si sono avuti durante l'ultimo atto, con qualche discreto spunto drammatico, ma onestamente nulla di veramente memorabile. Rilevato che, nel suo complesso l'esecuzione musicale mi è parsa adeguata, trattandosi di ripresa radiofonica, non posso certo giudicarne la parte visiva. Aggiungo però che le recensioni che ho letto su alcune riviste specializzate, erano piene di riserve, con ragione direi, almeno in questo caso. Inoltre la maggior parte degli sms mandati a Radiotre dagli ascoltatori erano decisamente di segno negativo. Giustamente il conduttore di Radiotre ha sottolineato il fatto come sia comunque importante che queste cose vengano fatte conoscere, al fine di potersi fare un'idea personale dell'andamento del teatro lirico contemporaneo e in questo la radio è senza dubbio uno strumento utile e prezioso, da sfruttare se possibile ancora di più, unitamente al fatto di potere avere accesso ai supporti audiovisivi, soprattutto in un paese come l'Italia, dove il teatro lirico è stato ridotto sostanzialmente a un museo delle cere! Ma volendo tentare un discorso lungo e articolato, nel timore di risultare troppo prolisso e tedioso, rimando il tutto a una prossima puntata. Gabriele Evangelista
mercoledì 6 aprile 2011
Contemporaneità e teatro lirico.
Innanzitutto una breve spiegazione sul titolo che ho voluto dare a questo blog: sono un vecchio melomane appassionato di musica soprattutto colta, con la voglia di condividere idee ed opinioni al riguardo con altri miei simili, ma avrei anche ambizioni divulgative e informative, semprechè ci siano almeno 4 gatti disposti a sorbirsi i miei sproloqui e a discuterli ovviamente, trattando di musica e dintorni con estrema libertà ; purtroppo al momento la mia scarsa dimestichezza con internet mi rende un pò difficoltoso procedere, per cui abbiate un pò di pazienza. Ieri sera ho ascoltato la diretta radiofonica su Radiotre dal Teatro Comunale di Bologna del dittico costituito dalle opere "Risorgimento!" di Lorenzo Ferrero e "Il prigioniero" di Luigi Dallapiccola. Il primo è un nuovo lavoro commissionato nel 2010 dal Comunale in vista dei 150 anni dell'unità d'Italia, il secondo è uno dei capisaldi del novecento storico italiano, rappresentato se non sbaglio in prima assoluta al Maggio Fiorentino nel 1950. La prima osservazione che mi viene da fare è di ordine extramusicale: perchè scegliere come orario d'inizio dello spettacolo le 20, stante la brevità dei 2 atti unici (ho personalmente cronometrato circa 49 minuti per il primo lavoro e circa 42 per il secondo). Penso che un simile orario balordo possa anche mettere in difficoltà chiunque abbia un'attività lavorativa e commerciale e voglia accedere in orario al teatro! Forse sarà anche per questo che, a giudicare dagli applausi captati dai microfoni della radio, il pubblico in sala sembrava invero scarsino e ancora più ridotto mi sembrava nella seconda parte della serata, con buona pace dei commentatori di Radiotre! Però mi viene anche da chiedermi quanto ancora la contemporaneità e persino il novecento storico che in quanto tale dovrebbe essere ampiamente e abbondantemente assimilato, tengano alla larga i melomani nostrani in generale dai teatri lirici e dalle sale da concerto. Persino quando, come nel caso del lavoro di Ferrero, trattasi di contemporaneità niente affatto ostica e sgradevole, in pratica più cronologica che effettiva, per ragioni che dirò oltre. Il problema è che, secondo la mia opinione, soprattutto in campo musicale, l'Italia è caratterizzata da quello che io definisco trogloditismo culturale, ossia estrema arretratezza culturale e provincialismo dilagante in ogni dove. Insomma il tipico appassionato musicale è sostanzialmente un retrogrado conservatore che desidera ascoltare all'infinito la solita solfa, ossia il repertorio più arcinoto, battuto e ribattuto fino alla nausea, a causa della sua incommensurabile pigrizia mentale, almeno questa è la mia impressione. Qui bisognerebbe chiamare in causa anche le istituzioni musicali e quant'altro, ma il discorso si farebbe troppo lungo e complesso, per cui mi riservo di affrontarlo in seguito. Adesso vorrei innanzitutto parlare dell'opera "Risorgimento!" di Lorenzo Ferrero e riferire delle mie prime impressioni suscitate dall'ascolto radiofonico, per cui per ovvi motivi non mi pronuncierò sulla parte visiva. Innanzitutto una perplessità legata al dipanarsi cronologico della vicenda oggetto di questo lavoro: per chi non lo sapesse la storia è incentrata sulle prove della messa in scena del "Nabucco" di Giuseppe Verdi, nel 1842. Senonchè verso la fine dell'opera compare in scena Giuseppe Verdi (recitato da un attore) nelle vesti di un anziano senatore, che a 50 anni dall'avvenuta unità d'Italia, rievoca con nostalgia le speranze di allora e riflette amaramente sulle delusioni successive, con relativo salto cronologico in avanti della vicenda narrata in questo lavoro. Ma forse mi sarò rimbambito ma a questo punto c'è un qualcosa che non mi torna: l'unità d'Italia si è avuta nel 1861, quindi il cinquantenario si è celebrato nel 1911; ma Verdi non è morto il 17 gennaio 1901? Non poteva certo essere resuscitato dieci anni dopo, tanto più che il personaggio in questione, in questo monologo, ad un certo punto, parla testualmente di "novecento alle porte"! Boh! Ma venendo alla sostanza musicale, ho trovato il lavoro di Ferrero non disprezzabile nel suo complesso, ma nemmeno particolarmente esaltante. Per dare una vaga idea delle caratteristiche del suo stile, rientra fra i compositori classificati come neotonali o neoromantici che dir si voglia, stante il valore relativo delle suddette classificazioni, da prendere quindi con le molle. Quel che è certo che i suoi lavori sono caratterizzati da una franca orecchiabilità, per non dire ruffianeria, che costituisce spesso il limite di questi compositori, oltrechè dall'assenza di una personalità particolarmente spiccata, che renda il suo stile immediatamente riconoscibile. Non siamo certo al livello di un John Adams, per intenderci! Quello che nuoceva a questo lavoro era senz'altro l'eccesso di citazioni verdiane e i troppi insistiti ricalchi stilistici. Come ha giustamente osservato un radioascoltatore, nelle 2 scene oniriche, in cui tra l'altro il compositore ha dichiarato in radio di avere fatto uso dell'atonalità, il richiamo alla "Turandot" di Puccini, risultava evidentissimo, persino sfacciato, per non parlare quasi di plagio, tant'è che alcuni radioascoltatori che hanno acceso l'apparecchio ad opera già iniziata, faticavano a dargli una collocazione cronologica precisa! Aggiungiamoci qualche vaga influenza da musical qui e là, oltrechè il fatto che ad un certo punto persino Adams mi sembrava che facesse capolino, ed il quadro è completo! Per quello che si capiva dalla ripresa radiofonica, il pubblico in sala sembrava apprezzare il tutto, con 2 o 3 applausi a scena aperta. Essendo un lavoro nuovo e mancando quindi altri termini di riferimento, l'esecuzione musicale mi è parsa più che adeguata, tenendo conto che trattasi di impressioni parziali, dovute a un unico ascolto radiofonico. Solo che quando nella seconda parte si è avuto "Il prigioniero" di Dallapiccola, lo scarto qualitativo fra i 2 lavori appariva evidente nella sua bruciante immediatezza, ovviamente a tutto vantaggio di quest'ultimo, autentico capolavoro del teatro musicale nostrano, nonostante un'esecuzione musicale a mio avviso poco convincente. Innanzitutto la direzione d'orchestra del sopravvalutatissimo Michele Mariotti, troppo spedita, esagitata e carente d'atmosfera e di preziosità strumentali, direzione che sembrerebbe aver influito negativamente anche sui cantanti, inducendoli a emissioni veristicheggianti nel senso più deteriore del termine, caratterizzati oltretutto da pronuncia ostrogota e senz'altro assai poco idiomatica, almeno attraverso l'ascolto radiofonico. Gli applausi del poco pubblico che doveva essere rimasto, mi sono sembrati tiepidi. In ambedue i lavori la resa corale e orchestrale mi è sembrata complessivamente adeguata. Resta da considerare il fatto che per vedere nei cartelloni dei nostri teatri, generalmente banali e stantii, una manciata di lavori nuovi, si sia dovuto aspettare il 150° dell'unità d'Italia (penso anche all'opera "Senso" di Marco Tutino, andata in scena al Massimo di Palermo lo scorso 28 gennaio). Ma essendomi dilungato troppo, rimando la continuazione del discorso sulla contemporaneità nel teatro lirico ad altra occasione. GABRIELE EVANGELISTA
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